Micro4Food è il laboratorio nato nel 2017 con l’obiettivo di studiare i microrganismi che sono utili per la produzione degli alimenti fermentati, grazie a un gruppo di microbiologi degli alimenti coordinati dal Professor Gobbetti e dalla Professoressa Di Cagno. Si trova all’interno del NOI Techpark, una struttura all’avanguardia sia a livello nazionale che internazionale; ne occupa quasi 500 mq con i suoi laboratori scientifici e linee pilota dedicati alla sperimentazione di diverse biotecnologie degli alimenti.
L’idea del Parco nel suo complesso è quella di permettere il trasferimento tecnologico, portando avanti anche ricerche commissionate da aziende che, nel caso di Micro4Food, sono del settore alimentare o farmaceutico. “Siamo circa diciotto persone” – ci racconta Raffaella Di Cagno, professore associato – “tra dottorandi del dottorato internazionale in Food Engineering and Biotechnology, assegnisti di ricerca, un tecnico di laboratorio e due ricercatori a tempo determinato”. Uno degli aspetti che caratterizza il loro gruppo è l’internazionalità, che la Libera Università di Bolzano favorisce.
Qual è l’obiettivo di Micro4Food?
La nostra “piattaforma”, così chiamiamo Micro4Food, si occupa di ricerche finalizzate allo studio delle fermentazioni. Circa il 30% degli alimenti che noi mangiamo oggi sono infatti fermentati. L’obiettivo è valorizzare gli effetti che la fermentazione ha sugli alimenti, sia ottimizzando le sue caratteristiche naturali o tradizionali – ad esempio la capacità di preservare le materie prime – sia sviluppandone di innovative, con l’intento di utilizzare il processo fermentativo per migliorare la biodisponibilità (in farmacologia e in fisiologia della nutrizione, la quota di un farmaco o di un fattore nutritivo che viene effettivamente utilizzata dall’organismo, ndr) di composti ad alto valore nutrizionale e funzionale che assumiamo da alimenti di origine vegetale e animale.
Che tipo di ricerche fate, quindi?
Le nostre ricerche, come dicevo, sono finalizzate a valorizzare e ottimizzare i processi di fermentazione e a indagare l’asse dieta-uomo in risposta alle abitudini alimentari e agli alimenti/ingredienti funzionali fermentati studiati ad hoc.
Le portiamo avanti grazie a un sistema in vitro il cui nome inglese è SHIME (Simulator of the Human Intestinal Microbial Ecosystem) – uno dei pochi simulatori dinamici di intestino riconosciuto dalla comunità scientifica che imita l’intero tratto gastrointestinale incorporando stomaco, intestino tenue e diverse regioni del colon – che ci consente di verificare l’effetto di alcuni ingredienti o alimenti fermentati sul microbioma intestinale.
È importante sottolineare anche che molti dei nostri studi hanno ripercussioni applicative e vengono trasferiti alle aziende.
Ma ho letto che vi occupate anche di scarti alimentari?
Si. Anche in questo caso l’obiettivo è la loro valorizzazione secondo vie naturali e sostenibili. Nello specifico, oggi stiamo lavorando sulle possibilità di dare una seconda vita ad alcuni sottoprodotti della lavorazione industriale mediante l’impiego di microrganismi, come ad esempio i batteri lattici e/o lieviti. Grazie alla collaborazione con un’azienda del territorio che produce strudel, stiamo portando avanti alcuni studi, con l’obiettivo di offrire un’alternativa allo scarto della mela.
Utilizziamo spesso microrganismi che appartengono alla nostra collezione di colture, ma anche microrganismi che isoliamo dalle materie prime o, come in questo caso, dagli scarti alimentari. Questo ci consente di avere fonti alternative da studiare. È interessante perché i tanti microrganismi non sono uguali; sebbene appartengano allo stesso gruppo, ognuno ha i propri tratti metabolici, e solo studiandoli è possibile capire quali hanno le migliori performance metaboliche.
Che primi risultati avete ottenuto?
Un ingrediente, da aggiungere al pane, che ha effetti positivi sulla conservabilità del prodotto e determina un arricchimento in fibre. Sono ricerche che abbiamo portato avanti grazie alla collaborazione con l’Università di Bari, e in particolare con il dottor Pasquale Filannino, uno dei miei primi tesisti quando ero docente a Bari e oggi un importante e stretto collaboratore.
Questo sottoprodotto fermentato è stato anche studiato come possibile integratore alimentare, con effetti antiossidanti. L’aspetto da evidenziare è che la fermentazione migliora la biodisponibilità di componenti naturalmente presenti nella materia prima, ma non “liberi”. La fermentazione può, infatti, determinare una modifica di alcune componenti chimiche come ad esempio i composti polifenolici, dando vita a “derivati” assenti nella materia prima o, meglio, presenti solo in forma di precursori. Questi derivati che si liberano hanno proprietà nutrizionali o funzionali migliori dei loro precursori e valorizzano il nuovo prodotto.
Marta Pietroboni