MASSIMO MONTANARI

Ordinario di Storia medioevale all’Università di Bologna, ha coltivato un particolare interesse per la storia dell’alimentazione. Massimo Montanari è stato allievo di uno dei maggiori studiosi italiani del Medioevo, Vito Fumagalli. È merito di un lungimirante suggerimento di quest’ultimo se Montanari, da medievalista, ha deciso di dedicarsi alla storia dell’alimentazione, con eccellenti risultati: numerosi libri pubblicati o in via di pubblicazione, seminari e corsi in molti Paesi europei ed extra-europei, cofondatore della rivista Food & History che ha diretto fino al 2008. Visto che ci sembrava l’interlocutore ideale per CiBi, l’abbiamo cercato, trovato e intervistato.

 

 

Perché, nello spazio della storia agraria, si è ritagliato l’interesse per l’alimentazione?

Vito Fumagalli mi buttò lì questa idea e io da quel momento ho sempre lavorato sull’argomento come mio principale tema di ricerca.

 

È stato facile tenere insieme storia agraria e storia dell’alimentazione?

Tradizionalmente i due ambiti sono sempre stati legati, anche se negli ultimi decenni questo legame si è un po’ allentato. Il rapporto primario di tipo economico tra il cibo e l’agricoltura, che rimane fondamentale, a un certo momento si è un po’ mitigato, al punto che ogni tanto mi viene voglia di riallacciarlo in maniera forte; ho bisogno di ricordarmi che stiamo parlando di cose che sono stati prodotte, al di là di tutto quello che succede poi.

 

È stato problematico trovare le fonti per una storia dell’agricoltura che inizia nel Medioevo?

Le fonti sul cibo sono infinite proprio perché io l’intendo come un percorso che comincia dalle risorse del territorio e poi attraversa le fasi dello scambio, del commercio, della destinazione sociale del cibo, della cucina, dell’uso come elemento di comunicazione sociale. Se pensiamo al cibo come aspetto centrale della vita, tutte le fonti ne parlano.

 

Il suo primo libro è L’alimentazione contadina nell’alto Medioevo. Perché si è concentrato sull’alimentazione contadina?

Si tratta di una fascia sociale che nell’alto Medioevo, e fino a un’epoca molto recente, rappresentava la stragrande maggioranza della popolazione, il 90-95%, e che non ha lasciato scritto nulla. L’alto Medioevo tradizionalmente viene rappresentato come un periodo buio dove capitano solo tragedie.

Io ho cercato di mostrare come i contadini vivevano in una società povera ma con un margine di sicurezza abbastanza elevato, perché la quantità di risorse che avevano a disposizione era molto diversificata. La biodiversità è la scommessa vincente del contadino dell’alto Medioevo.

Nel senso che non coltiva solo la terra ma alleva animali, raccoglie frutti selvatici, pesca, caccia. Ha un rapporto con l’ambiente dei campi, dei boschi, delle acque, dei pascoli. La popolazione è scarsa e quindi l’uso del territorio produce molte risorse, anche con sistemi tecnologicamente elementari.

 

 

Resta che i contadini fino a ieri hanno vissuto una vita grama

Si, grama e breve; fino al Settecento la vita media delle persone è stata molto bassa, 30-40 anni. Il contadino è affamato, però non necessariamente muore di fame. Risolve a modo suo il problema della fame, in un rapporto pericoloso con un territorio selvatico che però conosce, di cui si sente parte.

 

Poi lei pubblica un altro libro, La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa. In questo caso, la fame di chi?

Soprattutto dei poveri, e l’abbondanza di tutti. Proprio nel Medioevo si costruisce una civiltà alimentare che possiamo definire europea, nel senso che mette insieme un pezzo di tradizione mediterranea – l’antica memoria romana che concepisce l’agricoltura come fondamento identitario della civiltà – con esperienze di tipo diverso, soprattutto dei cosiddetti barbari che erano più legati a un modello alimentare fondato sull’uso del bosco e dell’incolto, su allevamento e caccia.

L’incrocio di queste due esperienze ha dato avvio nel Medioevo a una cultura nuova che possiamo definire europea. Un incontro tra la civiltà del pane e quella della carne. L’abbondanza è dei ricchi che l’ostentano, mentre i poveri la sognano – il paese di cuccagna – e la praticano nelle occasioni di festa, momenti celebrativi sempre organizzati intorno al cibo. Quindi, fame e abbondanza non solo come contrapposizione di gruppi sociali diversi ma anche come alternanza per tutti di occasioni di festa e situazioni di penuria. Vivere di fame vuol dire elaborare una serie di strategie per conservare il cibo, per valorizzarlo.

 

Lei ha scritto anche la storia degli spaghetti al pomodoro

È il sottotitolo di un libro che s’intitola Il mito delle origini. Allo storico, delle origini importa poco; l’essenziale è come le cose vanno a finire. E ciò che succede non dipende dalle origini ma da tutta una serie d’incontri che avvengono nel corso del tempo con altre culture, altre persone, altri prodotti, altre situazioni… il tema dell’incontro per uno storico è più importante del tema dell’origine. E, quindi, questa degli spaghetti al pomodoro è una storia d’incontri: la cultura della pasta con quella del formaggio e poi del pomodoro… cose che vengono storicamente da saperi e da Paesi anche lontanissimi.

 

Paola Chessa Pietroboni

direzione@cibiexpo.it

 

 

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