CATALANESCA E CAPRETTONE

Per questi 2 vitigni, accomunati da una storia di oblio e di riscatto, andiamo in Campania, alle pendici del Vesuvio. Ci guida Maria Paola Sorrentino che si occupa, appunto, d’accoglienza.

 

 

 

L’azienda agricola che gestisce oggi la famiglia Sorrentino è davvero un dono, un’eredità, della nonna Benigna, che ha avuto la lungimiranza di conservare tutti i vitigni autoctoni che crescevano nei suoi terreni e che sono per di più a piede franco (cioè viti con radici proprie, non ibridate e non innestate su radici di piante americane, ndr). Oggi avere ancora vitigni a piede franco significa innanzitutto trovarsi in una zona molto fortunata, i cui fattori indispensabili come il clima, l’esposizione della vigna, il vento e il Sole fanno sì che le condizioni per la proliferazione dei funghi, e quindi anche della fillossera, non si siano create e non si creino.

 

Chiedo a Maria Paola di raccontare ai lettori di CiBi la storia dell’azienda vitivinicola Sorrentino.

La storia inizia in realtà già nell’Ottocento e prosegue un secolo più tardi con la nonna Benigna,

che da giovane non vuole lavorare in campagna come i suoi genitori ma che presto, negli anni della Seconda Guerra Mondiale, riscopre la passione per la natura e, in particolare, per la coltivazione della vite e la gestione del “moggio” di proprietà (unità di misura corrispondente a 3.387 metri quadrati, ndr).  Allora fu la guerra a spingere la nonna a tornare alla terra: periodo gramo e difficile, durante il quale tutto era finalizzato alla sussistenza. La visione di una gestione imprenditoriale arriva con Paolo Sorrentino, il figlio, che nel 1990 fonda l’azienda come la conosciamo oggi. È così che dal moggio si arriva agli attuali 40 ettari che si estendono all’interno del Parco Nazionale del Vesuvio, abbracciando tutto il versante sud-ovest del vulcano. Ed è proprio il Vesuvio a far parte del DNA di questi vigneti che, come si è scoperto, insistono sulla lava vulcanica del 79 d.C. – quella dell’eruzione più distruttiva e famosa – che ha arricchito il suolo di minerali, pietre pomici e lapilli, rendendolo fertilissimo.

Oggi siamo alla terza generazione e, oltre a me che mi occupo dell’accoglienza, ci sono mia sorella Benny, enologa, annoverata tra i più giovani esperti d’Italia, e mio fratello Giuseppe, che si occupa della commercializzazione.

 

Veniamo ai vitigni. Parliamo della Catalanesca.

La Catalanesca è un’uva a bacca bianca, figlia della dominazione spagnola a Napoli; infatti, la sua presenza in questo territorio si deve ad Alfonso l di Aragona, che nel XV secolo pare avesse portato dalla Catalogna le barbatelle (piccoli tralci tagliati e interrati) di questo vitigno in dono a Lucrezia d’Alagno. Il loro amore non ebbe seguito, ma sul Monte Somma rimasero le barbatelle di Catalanesca. Nonostante arrivasse dalla Spagna come omaggio, e quindi apparentemente di grande valore, la Catalanesca venne catalogata come uva da tavola e non ne fu consentita la vinificazione per lunghissimo tempo. Questo anche se i contadini del posto erano soliti trasformarla in vino.

Dagli anni ’90 si diede avvio all’iter per l’iscrizione del vitigno al Registro dei vini, ma l’autorizzazione giunse solo nel 2006, con registrazione ufficiale nel Registro Nazionale delle Varietà di Vite dal 2007, ed è in commercio dal 2011 con la denominazione “Catalanesca del Monte Somma IGT”.

Questo vitigno si trova solo in Campania e in poco più di 50 ettari. Il motivo è da ricercare proprio nella storia, nel fatto che, per moltissimi anni, la Catalanesca è stata utilizzata esclusivamente per l’autoconsumo.

 

Parliamo anche del Caprettone.

Il Caprettone è un vitigno a bacca bianca. Il nome singolare è dovuto al fatto che la forma del grappolo ricorderebbe la barbetta delle capre oppure potrebbe essergli stato attribuito per il legame tra questo vitigno e i pastori che per primi l’avrebbero coltivato. Anch’esso come la Catalanesca è contraddistinto da una storia particolare, di oblio e di riscatto. Infatti, è stato a lungo identificato – anzi, meglio, confuso – con un altro vitigno più noto: il Coda di Volpe. Tuttavia, in epoca recente, si è scoperto che sia le caratteristiche genetiche e morfologiche sia quelle organolettiche dei vini che se ne ottengono sono in realtà molto diverse.

Il Caprettone si estende oggi su una superficie vitata di circa 80 ettari, e la sua zona di diffusione comprende 15 comuni ubicati attorno alle pendici del Vesuvio interessati dalla denominazione Vesuvio DOC. Per questo motivo, rientra anche tra i vitigni che, in piccole percentuali, sono atti all’assemblaggio del Lacryma Christi del Vesuvio bianco DOC.

Come dicevamo, il suo riscatto è ancora più recente rispetto alla Catalanesca, poiché è stato iscritto al Registro Nazionale delle Varietà di Vite soltanto nel 2014 ed è possibile imbottigliarlo dal 2017.

Elisa Alciati

elisa.alciati@libero.it

 

 

 

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