Questa rubrica festeggia con la Mornasca il suo primo anno. E sapete cosa c’è di meraviglioso? Che spesso riusciamo a portarvi racconti di vitigni e cantine che contano solo un numero: l’uno.
Ufficialmente Mornasca, o Uva di Mornico, Ugone, Ugona o Ugona di Mornico, talvolta anche Uvona. Pochissime le informazioni e nessuna scritta. Quello che si sa è che il vitigno era presente già nell’Ottocento e fino certamente al secondo dopoguerra; frecce al suo arco sono state la grande produttività e la resistenza alle malattie, tanto che si dice che l’Uva di Mornico fosse una delle più presenti nella zona (Mornico è in provincia di Pavia). Queste tutte le informazioni reperibili, stando ai racconti degli anziani del posto o dei nonni delle attuali generazioni di viticoltori.
È quindi indispensabile ricorrere al consueto ausilio dell’esperto, che questa volta sarà Domenico Cuneo. Titolare di Cascina Gnocco, azienda nata nel 1923 da Carlo Cuneo bisavolo di Domenico, che acquistò, a Mornico Losana, i terreni in località “Gnocco”.
Dunque, pochissime informazioni sulla Mornasca.
Si, pochissime. Quello che sappiamo risale ai racconti dei nostri vecchi. Abbiamo cercato documenti scritti, ma non è mai emerso nulla. Posso raccontare però un fatto curioso.
Nel 1860 circa, Don Orione apriva la prima casa agricola qui, al Castello di Mornico. Lui con i suoi ragazzi faceva agricoltura. È una mia supposizione, ma mi sembra possibile ritenere che, con la sua attività, abbia avuto un ruolo nella preservazione di questo vitigno. Ad ogni modo, venne abbandonato dopo gli anni Settanta, quando hanno preso piede le Denominazioni: si pensava a tutt’altro tipi di vitigni e che la Mornasca potesse fare solo grande quantità ma poca qualità.
Da qui in avanti la Mornasca viene abbandonata, fino alla sua riscoperta in tempi recenti e della quale lei è certamente protagonista.
Avevamo un ettaro di vigneto che era coltivato metà a Barbera e metà a Uva di Mornico. Lo tenevamo perché 13 filari di quest’uva producevano come il doppio dei filari di Barbera. Ma poteva essere usata solo come uva da taglio. Sapevamo che aveva bisogno di una vendemmia tardiva, ma un anno, il 2005, non smetteva di piovere e questo ci ha costretto a posticipare ulteriormente la vendemmia. Fu la nostra fortuna. Abbiamo trovato un’uva sana, diversa da prima e molto zuccherina. Così abbiamo provato a vinificarla in purezza. Non era iscritta però tra i vitigni autorizzati, e questo ci ha obbligato a seguire tutta la trafila necessaria.
Con l’Università degli Studi di Milano e il professor Failla, abbiamo seguito l’iter burocratico per richiedere l’iscrizione al Registro Nazionale. Successivamente, la Regione Lombardia, parliamo del 2010, ha approvato l’elenco delle varietà di vite per uva da vino coltivabili in Lombardia ma solo in provincia di Pavia.
Per quanto riguarda noi, dal 2016-2017 portiamo avanti unicamente questo vitigno.
Ha resistito bene alle lunghe piogge. Non è un fatto da sottovalutare.
No, infatti si tratta di un’uva molto resistente alle malattie. Per esempio, malattie fungine, oidio e peronospora, difficilmente attecchiscono. Poi, come abbiamo potuto sperimentare, resiste anche alla pioggia; al contrario di quello che si potrebbe pensare, la buccia è sottile ma molto resistente, e questo è dovuto anche alla particolare conformazione del grappolo.
Attualmente siete gli unici produttori. Al contrario di quello che si potrebbe pensare, questo non costituisce un vantaggio.
Si, siamo gli unici produttori. Molti hanno lo sguardo su altri vitigni: penso per esempio al Pinot Nero, in tutte le sue versioni. Ma potrei citarne molti.
Ho tentato diverse strade per portare questo vitigno a crescere un po’ e farsi conoscere. Ma non vedo interesse. Eppure, quello che è accaduto nel Tortonese con il Timorasso dovrebbe insegnarci qualcosa.
Ci troviamo anche in un luogo “baciato dalla fortuna”.
Si, il nostro paese rispetto ad altri è meno noto, ma ha una fortuna notevole: è circondato da un circolo di colline più alte che lo riparano dalle intemperie. Un esempio? L’ultima grandinata risale al 1963. Il terreno tufaceo e argilloso è ideale per i rossi. Ma basta passare il torrente Verzate per trovare terreni di gesso, ideali per i bianchi.
Veniamo al vino.
Per usare un nome noto, potrei dire che somiglia al Sagrantino di Montefalco. È un vino molto scuro, quasi impenetrabile. Ha una bella tannicità, poca acidità e buona struttura.
È necessario raccontare qualcosa anche del vostro Metodo Classico.
Quando facevamo il diradamento in vigna, buttavamo via alcune uve che, visto il periodo, erano ancora anonime, per colore e acidità. Un anno decidiamo di vinificarle e di sfruttare l’acidità per produrre un Metodo Classico. Ne stiamo ancora studiando la longevità; ora siamo a 110 mesi sui lieviti (si fa maturare il vino a contatto con i lieviti della fermentazione alcolica per aumentare il suo corpo, ndr).
Cosa ci si deve aspettare da questo vino?
Si tratta di un esemplare dai profumi molto complessi, senz’altro particolare e per il quale non è possibile ricercare paragoni, e questo vale anche per il rosso. Più che spiegato, va assaggiato.
Elisa Alciati