MANGIARE COME DIO COMANDA

Regole e precetti religiosi relativi al cibo sono frutto di – e racchiudono dentro di sé – un insieme complesso di ragioni storiche, ambientali, culturali, spesso ormai sconosciute.

La loro scoperta può essere illuminante. Principi e obblighi legati all’alimentazione variano notevolmente tra le diverse religioni. Al tema, nel 2017, il nostro nutrizionista, Giorgio Donegani, aveva dedicato un articolo tecnico e dettagliato. Oggi cercheremo invece di approfondirlo da un punto di vista culturale.

 

 

 

 

È stato pubblicato di recente un libro interessante: Mangiare come Dio comanda. Secondo gli autori, Elisabetta Moro e Marino Niola, la frase che dà il titolo al libro non è una semplice espressione proverbiale ma la chiave capace di svelare i segreti di quel che siamo e facciamo, sentiamo, pensiamo e crediamo ogni volta che ci mettiamo a tavola.

Oggi ognuno di noi, o quasi, segue una propria religione alimentare, fatta di precetti puntualissimi, che non hanno, in larga parte, ragioni d’essere spirituali, ma materiali: l’estetica, il benessere, la sicurezza, il rispetto dell’ambiente. Ogni Dio, che sia un Dio di tutti delle religioni monoteiste o un Dio personale contemporaneo, impone prescrizioni differenti, e la sfida, ardua, suggeriscono gli autori del libro, “consiste nel trovare dei menu che vadano bene a tutti, ossia delle ricette di convivenza”.

Riportano, nelle prime pagine del libro, un caso interessante. Nella città di Sarajevo, per secoli è stata in vigore una legge non scritta ma rispettata da tutti, quella del komšiluk, ovvero del buon vicinato. Prevedeva, secondo un’antica consuetudine tipica delle comunità multireligiose, che ogni volta si fosse invitato qualcuno a cena si sarebbero evitati i cibi e i comportamenti proibiti dalle varie fedi, senza informarsi in merito al credo religioso dell’ospite.

È possibile oggi seguire questa strada? In fondo, il senso delle regole e dei precetti religiosi sul cibo, potremmo dire di un “galateo religioso”, è sempre stato quello di costruire comunità di persone che si riconoscessero negli stessi valori e nelle stesse pratiche oltre che di tutelarne la salute. Vogliamo ancora riconoscerci in una dimensione ampia?

L’ebraismo, per esempio, è noto per la sua kashrut, il sistema di leggi alimentari basate su prescrizioni contenute nella Torah (in particolare, nei libri del Levitico e del Deuteronomio), che regolamenta la dieta degli ebrei ortodossi, distinguendo tra cibo permesso (kosher) e non permesso (treif) e dettando specifiche regole di trasformazione, lavorazione, cottura e consumazione degli alimenti. I divieti più conosciuti sono quelli relativi al consumo di carne di maiale, del sangue degli animali, dei frutti di mare senza pinne e squame, della mescolanza di carne e latticini.

Molte di queste regole, come è facile intuire, sono state dettate dall’intenzione di proteggere la salute della comunità, riducendo i rischi di trasmissione di malattie dagli animali all’uomo. Allo stesso tempo, però, hanno avuto anche un forte valore nella conservazione dell’identità culturale. Il rispetto di queste leggi ha infatti contribuito a preservare la coesione, in questo caso specifico, della comunità ebraica nel corso della storia, in particolare durante la diaspora.

Spesso vicini di casa degli ebrei, gli islamici hanno precetti alimentari che non si discostano di molto. Così come per il popolo ebraico il cibo, per essere consumato, deve essere kosher, nell’Islam deve essere halal (sempre traducibile con “lecito”). Le leggi islamiche vietano a loro volta il consumo di carne di maiale, di animali non macellati in modo corretto, e aggiungono alla lista degli alimenti proibiti le bevande alcoliche. Introducendo anche una pratica: il digiuno durante il Ramadan (nono mese del calendario lunare islamico) dall’alba al tramonto, cioè nelle ore di luce. Il cristianesimo, salvo digiuno e astinenza in Quaresima, è oggi molto poco normativo. Simile è l’induismo, che non ha un insieme di regole alimentari uniformi, ma molte pratiche dietetiche basate sulla purezza e ahiṃsā (non violenza), per cui spesso i suoi adepti seguono una dieta vegetariana, così come tanti buddisti, guidati dall’intenzione di non fare del male ad altri esseri viventi.

Sta succedendo però, a livello mondiale, qualcosa di particolare e interessante.

Come scrivono Moro e Niola, “L’umanità è passata da una condizione in cui la religione era il grande codice dei comportamenti alimentari alla condizione attuale caratterizzata, almeno in Occidente, dall’emergere di una vera e propria religione del cibo”, che si muove a passi schizofrenici tra cibomania e cibofobia.

Interessantissimo, in questo contesto, è un fatto. Per ragioni di trasparenza, tracciabilità, rigore in materia di controlli, e quindi sicurezza tangibile, non per credo religioso, il cibo kosher da alcuni anni a questa parta ha decuplicato le vendite. Il rigore della shechitah, la legge che regola scrupolosamente le modalità di macellazione e trasformazione delle carni, ha convinto tantissimi consumatori a comprare solo carne certificate kosher. Ci sarà un seguito e quale sarà?

Marta Pietroboni

marta.pietroboni@cibiexpo.it

 

 

 

 

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