GRERO

Tappa in Umbria per un nuovo vitigno, più unico che raro. È a bacca nera, certamente antico e, probabilmente, di derivazione greca, citato per la prima volta nel 1893 da Baldeschi sull’Annuario Generale per la Viticoltura ed Enologia a proposito dell’Umbria.

 

 

Si trova e si trovava soprattutto nel comprensorio di Todi, era conosciuto con il nome di Grechetto Nero o Nero di Todi o Grechetto Rosso ed era lavorato in coltura cosiddetta promiscua: la vite era cioè maritata, ovvero fatta crescere assieme ad alberi (tipo ulivo) come “mariti”. Poi , con l’esodo dalle campagne e l’arrivo della meccanizzazione, si racconta la storia, che purtroppo abbiamo sentito spesso, di una scomparsa.

Per fortuna, nel destino del Grero c’è stato un evento positivo, una riscoperta. Abbiamo parlato con Fabiano Zazzera dell’omonima cantina che ci ha raccontato anche quello che della sua storia non è scritto sui libri.

 

Per voi, i vitigni antichi sono anzitutto una passione.

Sì, siamo tra i pochi appassionati a cui piace andare a riscoprirli. Lo facciamo con l’aiuto del passaparola degli anziani del posto e utilizziamo le cartine geografiche antiche dell’Istituto Militare per poter osservare la situazione del territorio subito dopo la guerra. Confrontando le foto attuali con quelle di settant’anni fa, si studia la trasformazione dei luoghi. È così che poi si può andare a verificare sul posto; dove c’era una vigna magari ora c’è un bosco ed è lì che si può trovare un vecchio vitigno.

 

Tanto più è raro un vitigno, tanto più è difficile trovare informazioni. Raccontiamo allora la storia del Grero.

Il Grero lo abbiamo scoperto anni fa, quando fecero dei lavori su una rotonda in cui c’erano due piante di vite. Ci sono parse strane e le abbiamo attenzionate. Accadde poi che la stessa pianta venisse trovata nel giardino di una signora che aveva appena acquistato casa: era enorme e rigogliosa e a piede franco (cioè con radici proprie,  ndr), a differenza delle precedenti, ma aveva le stesse caratteristiche. Notando la somiglianza, abbiamo deciso di studiarla. Nella ricerca siamo stati aiutati dall’Università di Perugia e dal professor Alberto Paliotti.  Facemmo tutte le analisi di rito; bisognava dimostrare che il vitigno fosse unico per poterlo definire autoctono. Le analisi molecolari condotte con il CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche) lo dimostrarono e fu possibile iscrivere il vitigno al Registro Nazionale delle Varietà di Vite.

 

Inizialmente non si chiamava Grero.

Il vitigno di cui stiamo parlando era utilizzato fino dalla notte dei tempi come Grechetto Rosso. Inizialmente abbiamo presentato la domanda con questo nome. Ma esisteva già un’omonimia con un vitigno della Tuscia; quindi non ci è stato permesso. Allora abbiamo preso le iniziali “Gre” e “Ro” ed è diventato Grero (altre fonti indicano che il nome nasca dalla crasi di Grechetto Nero; ad ogni buon conto il risultato non cambia, ndr).

 

Utilizzato dalla notte dai tempi, ovvero?

Nelle nostre campagne veniva impiegato per fare il “governo alla toscana” (è una particolare tecnica che consiste nell’avviare, dopo la prima, una seconda fermentazione, ndr). I  vigneti qui erano dei signori locali che si prendevano le uve o della Chiesa. Vendemmiavano verso settembre e si portavano via il vino, ma il Grero maturava più tardi, verso fine ottobre o ai primi novembre; quindi, era quello che rimaneva. Un piccolo tesoro nascosto che i contadini tenevano per loro: per Natale si usava per arricchire le rimanenze, vini scarichi con poco colore che si recuperavano grazie al Grero, ricchissimo di antociani e polifenoli ma, soprattutto, pieno di malvidina, che faceva sì che si mantenesse buono a lungo. Oggi sappiamo che la malvidina è un conservante naturale detto fonte di giovinezza naturale.

 

Ma qualcosa ha giocato a suo sfavore, tanto da rischiare di essere perduto per sempre.

Questo vitigno ha come peculiarità una scarsissima produzione. E l’imprevedibilità. Va da

5 a 20 quintali di produzione ad ettaro quando va bene. Abbiamo fatto la prima bottiglia nel 2011; quell’anno da 427 piante si è ottenuta una produzione di 60 bottiglie. Dalle stesse piante nel 2017 è derivata una produzione di 600 bottiglie. Non è un vitigno gestibile dal punto di vista agronomico, non dipende dall’uomo, per fare un esempio dalle potature. Nel dopoguerra, l’interesse era alla quantità e alla meccanizzazione; le piante con produzione scarsa sono state le prime a pagarne le conseguenze.

 

Veniamo al Grero.

Un vino da meditazione ma anche da convivialità. Ha molto colore, si può sentire dall’incenso alle spezie, alloro, rosmarino; è privo di tannino e risulta nel complesso molto elegante. È preservato dalla malvidina, quindi evolve per lungo tempo. Stiamo ancora studiando la sua capacità di evoluzione dalla prima bottiglia nel 2011.

 

Cosa deve aspettarsi chi si appresta a bere un calice di Grero?

L’unicità. Non assomiglia a nessun altro vino. Trovo questa una caratteristica entusiasmante.

 

Elisa Alciati

elisa.alciati@cibiexpo.it

 

 

 

 

 

 

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