15 UOMINI…E UNA BOTTIGLIA DI RUM

“Sia confiscato qualsiasi liquore delle Barbados: rum, ammazza-diavoli e simili”, aveva ordinato la General Court del Connecticut nel 1654.

Appena “inventato”, il rum già creava problemi. Ma facciamo un passo indietro: la canna da zucchero, Saccharum officinarum (con i suoi ibridi), è una pianta nativa delle regioni indomalesi (India, Sud-Est asiatico, Papua Nuova Guinea) che consiste, in sostanza, in fili d’erba alti 5 metri con canne di 10 chili. Da essa si ricava un succo che può essere consumato subito oppure utilizzato per estrarre il dolcificante più diffuso al mondo: lo zucchero.

 

 

 

Agli esseri umani l’idea di ricavarci qualcosa con cui ubriacarsi viene prestissimo. Due antenati del rum che beviamo oggi sono menzionati rispettivamente da Anthony Dias Blue – il brum, una bevanda che, pare, i malesi producano da millenni – e da alcuni testi in sanscrito studiati da K.T. Achaya – lo shidhu, bevanda consumata nell’antica India –. La storica dell’alimentazione Maria Dembinska afferma poi che, nel XIV secolo, re Pietro I di Cipro portò con sé una bevanda assimilabile al rum al Congresso di Cracovia del 1364 come dono per gli altri regnanti. Plausibile, dato che nel Medioevo Cipro era tra i maggiori produttori di zucchero.

Nessuno di questi tentativi sembra però direttamente collegato alla nascita del rum che conosciamo oggi. Innanzitutto, la parola che usiamo, “rum”, non compare prima degli anni Cinquanta del Seicento. E non si capisce bene da dove venga, chi se la sia inventata. Tra le varie ipotesi, lo si connette allo slang inglese rum che indicava “alta qualità”, ma, dato che i primi rum non è che fossero proprio una bontà, l’ipotesi lascia molti dubbi. Altri lo collegano alla parola latina iterum, “di nuovo, per la seconda volta”, forse in riferimento alla distillazione. Altri ancora alla parola francese arôme. Infine, c’è chi lo collega al termine rummer, dall’olandese roemer, bicchiere per liquori. Nessuno però sembra sia ancora riuscito a mettere d’accordo tutti sulla questione.

Per come lo usiamo oggi, il termine cambia in base al Paese di provenienza: diventa ron nei Paesi latino-americani, mentre gli si aggiunge la h (rhum) per distinguere i distillati della Martinica francese, ottenuti dalla melassa, dal rum prodotto a partire dal succo fresco di canna da zucchero.

Molti storici concordano sul fatto che la produzione del rum sia riuscita a raggiungere la sua piena fioritura nei Caraibi solo grazie alle tecniche di coltivazione sviluppate in Brasile, sbocciando come scoperta nelle isole tropicali nel corso del XVII secolo. L’invenzione, pare, fu merito degli schiavi impiegati nelle piantagioni di canna da zucchero, che, individuata la melassa, la utilizzarono per ricavarne un fermentato alcolico e, successivamente, un distillato. Dai resoconti dell’epoca non sembra fosse un granché, ma, perfezionandosi col tempo, arrivò a dominare il commercio dell’Atlantico, sostituendosi al brandy come merce di punta e persino come pagamento per le guardie nel vertice africano delle rotte commerciali. Finita l’era del brandy, il rum conquista i mari.

Secondo James Pack, autore di “Nelson’s Blood. The Story of Naval Rum”, l’associazione tra rum e pirati sembra avere origine con i corsari inglesi, consacrati al distillato di canna da zucchero dalla letteratura d’avventura, come nel caso de “L’isola del tesoro” di Robert Louis Stevenson. Ma la nostra bevanda sfonda nella marina militare inglese nel 1655, quando l’Inghilterra conquista la Giamaica. Dato che gli inglesi potevano ora prodursi il rum “in casa”, senza comprarlo a caro prezzo da altre potenze commerciali, lo sostituirono nella razione giornaliera di brandy francese consegnata ai marinai. Inizialmente, il prodotto era una miscela di rum provenienti dalle Indie Occidentali. Aveva una gradazione pari a 100 gradi-proof, che corrispondono ad almeno 57% di volume alcolico, ma l’idrometro per misurare questo volume alcolico ancora non c’era e quindi gli inglesi dovevano ingegnarsi in qualche altro modo per valutare la “forza” dell’alcol, per esempio con il test della polvere da sparo. Se la polvere imbevuta di alcol avesse preso comunque fuoco, il distillato avrebbe ottenuto la certificazione 100 gradi-proof.

All’inizio, le razioni venivano consegnate pure o allungate nel succo di lime, ma a un certo punto devono essersi accorti che i marinai andavano via storti.  Attorno al 1740 prese piede la pratica di consegnarle annacquate. Così, l’ammiraglio Edward Vernon impose delle razioni di rum allungato con acqua che prese il nome di grog.

Una leggenda, infine, coinvolge un altro ammiraglio inglese, probabilmente il più famoso della storia: Horatio Nelson. Si racconta che, dopo la battaglia di Trafalgar, il corpo dell’ammiraglio fosse stato collocato in una botte piena di rum perché potesse conservarsi fino all’arrivo in Inghilterra. Solo che all’approdo l’alcol era sparito. Hai capito l’ammiraglio! No, in realtà, dopo un’attenta ispezione, si scoprì che un marinaio aveva scavato un foro nel barile per bersi il distillato, da cui l’espressione Nelson’s Blood, il sangue di Nelson, per riferirsi al rum.

Riccardo Vedovato

riccardo.vedovato1994@gmai.com

 

 

 

 

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