Un collettivo di food photographers dalle idee belle chiare. Che però si mettono sempre in discussione. Vi raccontiamo la loro storia, tra still life, entusiasmo e montagne di farina. Come prima cosa chiediamo loro quando sono nati e perché hanno sentito l’esigenza di creare un collettivo di food photographer.
Foto di Alessandra Desole
Ci siamo conosciuti nell’ambito di un progetto sulla food photography che però ci stava stretto; quindi abbiamo deciso di iniziare un percorso insieme come collettivo, sfruttando i nostri diversi punti di forza, come singoli fotografi ma anche come gruppo.
Qual è il filo conduttore che vi unisce?
Il nostro punto di forza è la diversità. Come collettivo proponiamo ai nostri clienti linguaggi visivi differenti tra loro ma al contempo attuali e contemporanei: da uno stile minimalista e pulito a uno che strizza l’occhio alla pop art o a un altro ancora che si ispira alle atmosfere del Nord Europa. I nostri sguardi sono estremamente versatili.
Quali sono le caratteristiche dei vostri diversi linguaggi espressivi?
Il filo conduttore è ovviamente il cibo, declinato in tutte le sue forme, dal più realistico al più concettuale; le nostre diversità ci permettono di completarci e di rappresentarlo a 360 gradi.
Still life e future possibili evoluzioni secondo voi. E inoltre, possiamo ancora parlare di trompe-l’oeil?
La fotografia di still life è in realtà composta da diversi sottogeneri. A livello stilistico, negli ultimi tempi è molto in voga l’utilizzo di tinte piatte, superfici uniformi e ombre dure.
Come in tutti i tipi di ricerca fotografica, cosi come in tanti trend più o meno passeggeri, è difficile dire quali potrebbero essere le direzioni future. Sicuramente un ruolo molto importante lo giocano i big del settore tecnologico, in cui la rappresentazione fotografica di un prodotto è altrettanto importante del suo stesso design innovativo. Nel mondo del food ci sono veri e propri trendsetter (chef, magazine, editori, fotografi) e anche in questo settore abbiamo visto e vedremo cicli di ricerche stilistiche molto diverse tra loro.
Minimalismo, ridondanza, contrasti, sfumature… Questi stili rientrano nelle vostre espressioni?
Minimalismo, sfumature e contrasti fanno sicuramente parte del nostro linguaggio visivo.
Essendo fotografi diversi tra noi, ognuno punta sugli stili che gli appartengono: chi più minimal, chi più attraverso giochi di luce. In realtà, quando si tratta di soddisfare la richiesta di un cliente, ci si adatta alle sue esigenze, che possono essere orientate alla vendita di un prodotto, una ricetta, un piatto. In quel caso le sfumature sono piuttosto ridotte; diverso è quando ci dedichiamo a progetti personali, in cui le foto ci rispecchiano al 100%.
Philip Kotler, padre del marketing moderno, parlava di alta visibilità per la messa in scena di un oggetto. Quali sono le vostre strategie in proposito?
Come fotografi chiamati a rappresentare un prodotto da parte di un committente cerchiamo di far sì che l’immagine ruoti attorno a quello che dobbiamo pubblicizzare, provando attraverso una ‘semplice’ immagine a esaltarne tutte le caratteristiche, non solo stimolando la vista ma evocando sapori e profumi, invogliando a provare il soggetto fotografato.
Food photography tra finzione e verità: come vi comportate con i vostri scatti per i social?
Essendo il nostro un collettivo composto da più persone, rappresentiamo il cibo in modi anche estremamente diversi l’uno dall’altro. Dal momento in cui un’immagine ci viene commissionata da un cliente, diamo il massimo risalto al prodotto, e questo comporta di contestualizzarlo nel modo più ampio e completo possibile.
Food photography tra… 20 anni?
Il mondo del cibo è in continua evoluzione e la food photography ne segue e seguirà i cambiamenti avvalendosi di attrezzature e tecniche sempre più elaborate. La speranza è che tra 20 anni le innovazioni culinarie non ci abbiano fatto dimenticare il cibo inteso come patrimonio culturale che affonda le sue radici nella tradizione… Speriamo tra due decenni di non mangiare solo cavallette o chissà quale altra ‘strana’ alternativa. Nel caso, ci organizzeremo di conseguenza con chissà quali strumenti.
Curiosità: avete scelto di chiamarvi Zest perché volete togliere la scorza o rendere la scorza più… appetibile?
Abbiamo scelto questo nome perché il termine zest ha una doppia valenza: significa effettivamente “scorza”, “pelle”; ma abbiamo fatto nostro il modo di dire “zest for life”, che significa entusiasmo, gusto, interesse per la vita. Il progetto è nato per una forte propensione e necessità alla cooperazione, al dialogo tra diverse menti creative.
Come vi immaginate nel futuro?
Difficile immaginarci tra 20 anni, però ci piace pensarci magari tutti attorno a un tavolo, con un bicchiere di vino e del buon cibo, a discutere di nuovi progetti.
Chiara Caprettini
chiaracaprettini@nordfoodovestest.com