Incontro Carmen Giordano nel dipartimento di Chimica, Materiali e Ingegneria Chimica del Politecnico di Milano. Salendo le scale mi stupiscono il silenzio, l’ordine, il bianco degli spazi: non può che essere un luogo vissuto da scienziati. L’accoglienza di Carmen, chimica e professore associato di bioingegneria, è però tutt’altro che fredda e mette a proprio agio con cordialità spontanea. È, come dicono i suoi figli, una mamma che la mattina si prepara per “andare a fare la scienziata”.
Ha un curriculum che stupisce per varietà, una tenacia unica, ed evidentemente bravura e competenza. Sono curiosa di farmi raccontare il progetto di ricerca al quale ha lavorato per dare vita ai due laboratori che intravediamo oltre la porta socchiusa.
“Il progetto si chiama MINERVA”, racconta, “ e Minerva e Athena sono i due laboratori figli del progetto. In Minerva lavoriamo con le cellule umane, in Athena con i batteri. Li ho chiamati così, con il nome latino e greco della stessa dea, perché sono due facce di un progetto, e insieme costituiscono l’unità di ricerca denominata ‘Technobiology Labs’ ”.
L’unità di ricerca si occupa di microbiota e microbioma, di cui abbiamo già parlato in un paio di articoli. Che cosa sono e che cosa succede nei tuoi laboratori?
Microbiota e microbioma intestinale sono i termini che vengono utilizzati per indicare rispettivamente: a) la componente batterica e b) il genoma nativo della flora batterica intestinale. In sostanza, con questi vocaboli descriviamo la composizione batterica presente all’interno dell’intestino, abitato anche da molti altri microrganismi.
La ricerca alla quale lavoriamo parte dall’ipotesi che l’assunzione di alcuni cibi particolari abbia effetti positivi sulla durata della vita e sull’attenuazione dei sintomi dell’invecchiamento, ipotesi suggerita all’inizio del secolo dallo scienziato russo Il’ja Il’ič Mečnikov, accantonata per un periodo ma recentemente ripresa perché si pensa che la funzionalità cerebrale possa essere in qualche modo influenzata anche da altri distretti corporei.
Come mai?
Negli ultimi cinquant’anni si è cercato di trattare patologie come il morbo di Parkinson e la malattia di Alzheimer sempre a livello centrale, senza risolvere il problema. Non si pensa che la causa sia da un’altra parte, ma magari una concausa potrebbe essere in altri distretti corporei. E così si è ripresa la ricerca in questo settore.
Le figure impegnate in prima linea sono biologi, biotecnologi, clinici. Il punto è che non è mai stato provato il nesso causa-effetto tra funzionalità cerebrale e microbiota. Non si è mai dimostrato che una variazione del microbiota possa di fatto avere un effetto diretto su patologie a carico del cervello come autismo, ansia, depressione, o su malattie neurodegenerative come Parkinson, Alzheimer e sclerosi multipla.
Si è visto che c’è una correlazione, ma c’è differenza tra correlazione e prova provata: si passa da un’ipotesi, che consente il semplice suggerimento di mangiare meglio, a una certezza, che autorizza a indicare una strategia terapeutica, approvata e consolidata.
E quindi state lavorando per arrivare ad avere la “prova provata”?
Il limite forte delle tecniche in vitro utilizzate fino a oggi è che impiegano colture cellulari di tipo tradizionale, le quali usano comuni piastre di coltura: cioè sistemi bidimensionali inidonei a rappresentare la tridimensionalità del cervello; oppure perlopiù basati su una o due linee cellulari, mentre nel nostro cervello ce ne sono di più.
Questo rende i modelli in vitro molto semplici e poco predittivi. Viceversa, le sperimentazioni “in vivo” sono generalmente basate su modelli germ-free (privi di germi, ndr): i test si compiono su animali ai quali viene resettato totalmente il microbiota intestinale e ri-innestato un microbiota selezionato.
In questo modo cosa accade?
I germ-free mice, i topi con un microbiota azzerato, hanno delle alterazioni a livello intestinale e cerebrale che sono vere e proprie modifiche anatomiche. Queste non li rendono comparabili a esseri viventi “normali”. Inoltre, alcune zone del cervello umano che si accendono in risposta a certe attività sono diverse da quelle che si accendono nei topi.
Il limite è che ci si concentra su una zona del cervello animale che non ha corrispondenza in quello umano. E anche gli studi clinici sono abbastanza dispersivi, perché il dato di partenza, cioè quello derivante dai pazienti, è troppo variabile: basta cambiare l’alimentazione per un mese oppure seguire una terapia antibiotica massiccia per determinare alterazioni.
Per rispondere quindi alla tua domanda: le soluzioni in vitro sono sicuramente le più rappresentative rispetto alla nostra problematica ma sono ancora poco predittive e su questo stiamo lavorando… Lo stato della scienza attuale è il seguente: sappiamo che c’è un effetto a livello cerebrale che deriva da come ci nutriamo e dallo stile di vita che seguiamo; ma siamo all’inizio dello studio che ci dirà come e perché.
Tema affascinante e impegnativo. Si può migliorare la predittività dell’in vitro? Alla prossima puntata.
Marta Pietroboni