MARINO SINIBALDI

Sotto il vulcano i rischi possibili sono tanti ma la terra è fertile.

Chiedo di presentarsi a Marino Sinibaldi, per anni Direttore di Rai Radio 3, autore e conduttore di programmi radiofonici e televisivi tra i quali La storia siamo noi, Fine secolo e Fahrenheit, critico letterario, Presidente del Centro per il Libro e la Lettura e oggi Direttore della rivista Sotto il Vulcano.

 

 

 

Sono nato a Roma nel 1954 in un quartiere popolare e qui ho vissuto a lungo: è una particolarità, ma può essere anche un limite, naturalmente; ho fatto molti lavori in ambito culturale, editoriale e politico, fin da ragazzo. Ho collaborato con riviste – Ombre rosse, che era un trimestrale di cinema e militante negli anni ‘70, poi Linea d’ombra e La terra vista dalla luna – e, nel frattempo, ho fatto per 22 anni un lavoro pubblico, il bibliotecario, e per altri 22 il dirigente Rai, nel ruolo di vicedirettore e poi direttore di Radio 3. Ho pubblicato ma mi attrae l’oralità: ho scritto relativamente poco rispetto a quanto ho parlato… E di recente ho fondato la rivista Sotto il Vulcano. È un trimestrale edito da Feltrinelli e nato perché immaginavo che l’umanità alle prese con la pandemia e altre emergenze – quella climatica, quella economica, la trasformazione tecnologica – dovesse in qualche modo ripensarsi. Volevo un periodico che raccogliesse riflessioni, idee e narrazioni di scrittori, filosofi, poeti, artisti, scienziati e fumettisti, mutate da un’esperienza radicale come quella appena vissuta. È un progetto molto specifico, tanto che è cronologicamente determinato: ne usciranno 10 numeri. Amo le riviste perché sono qualcosa di plurale: contributi piccoli, grandi, decisivi o più leggeri.

 

Il titolo è quello di un romanzo, famosissimo, del secolo scorso, ma non solo?

Mi sembrava che l’immagine di Sotto il Vulcano fosse veramente espressiva. Ci muoviamo in una direzione di vulnerabilità e di incertezza, così come quando si vive sotto un vulcano: può dormire o eruttare senza che si riesca a prevederlo. Allo stesso tempo – e mi appello alla vostra competenza – sotto il vulcano c’è la terra più fertile. Nella condizione di pericolo c’è la fertilità, e spero che la metafora valga anche per pensiero e narrazione.

 

Un po’ di mesi di crisi li abbiamo alle spalle. Siamo riusciti, almeno in parte, a ripensarci? A sfruttare questa ferita?

Messa così, sarebbe facile essere pessimisti; però io penso, in particolare sulla pandemia, che non abbiamo reagito male. Abbiamo disposto in campo energie e comportamenti di responsabilità e senso di comunità significativi. Poi, deve accadere qualcosa di più profondo, e questo è meno visibile. L’idea di un io separato dal resto credo che sia stata messa in crisi dalla pandemia. Ma il futuro lo vedremo. Anche da un punto di vista ambientale non crediamo ancora fino in fondo che il nostro singolo comportamento abbia una potenza collettiva o globale.

 

Eppure, viaggiamo tutti tantissimo, sperimentiamo la relazione tra locale e globale, tra noi e il paesaggio. Che rapporto ha lei con il viaggio?

Mi piace molto, ma l’ho sperimentato poco. Ho sempre lavorato. Credo di non essere mai stato fuori Roma per più di 1 mese. E penso sia un “difetto”, perché quando viaggi riesci a guardare un po’ dal di fuori te stesso, osservi attraverso uno spettro che è quello di altri luoghi. Viaggiando, mi affascinano la storia e la cultura enogastronomica dei Paesi. In merito a questo, tornando alcuni mesi fa in Portogallo dopo quasi 50 anni, ho pensato che tutto è in continua trasformazione, salvo i piatti. È una banalità, ma non ci avevo mai fatto caso. Le cose radicate di una società alla fine non sono molte: l’architettura e la natura, che cambiano molto più lentamente degli abiti, le strade, i consumi, i linguaggi, la musica, la politica… La natura e il cibo certo che sono cambiati – non sono così ingenuo da non vedere le variazioni – ma si basano su costanti profonde e permanenti.

 

Che cosa hanno di comune alimenti e vocaboli?

Hanno a che fare entrambi con la sfera del piacere e sono entrambi “culturali”, nel senso che riguardano storie e comportamenti profondi, trasformazioni infinite. Vivo una contraddizione in merito al cibo: mi piace fare attenzione, non mangio cose casuali, d’altra parte trovo ci sia un eccesso di sofisticazione.

 

Ha detto all’inizio che ama l’oralità. La distinzione che fa tra parole dette e scritte è legata alla loro diversa capacità di arrivare al pubblico o, invece, a un amore personale di modalità di espressione?

Un po’ tutte e due. Sono molto legato alla conversazione come relazione piena in cui uno guarda lo sguardo dell’altro, e mi trovo più a mio agio con questa forma di comunicazione. Amo molto le parole, la loro elasticità. Non posso dire di sottovalutare la cultura scritta, però trovo che nell’oralità ci sia un elemento di mobilità e di confronto di cui abbiamo sempre più bisogno. Rivendico il valore profondamente politico della conversazione, necessario: parlare, ascoltare e anche a volte cambiare idea. C’è meno gerarchia nella conversazione. Quest’idea della gerarchia è un po’ la bestia nera della mia vita…

Marta Pietroboni

marta.pietroboni@cibiexpo.it

 

 

 

 

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