È nata a Soriso, in provincia di Novara. Mamma insegnante. Negli anni Cinquanta, in un paesino, era una situazione privilegiata e uno stimolo a proseguire gli studi. Si laurea in lettere, anche se avrebbe preferito un percorso artistico. Ma il destino gioca le sue carte: rientrando da una gita, si ferma in un noto ristorante di Borgomanero.
Titolare e maestro di sala è Angelo Valazza. Iniziano parlando del più e del meno, si frequentano, s’innamorano e finisce che Luisa decide di seguirlo. Appena sposata, muove i primi passi in sala e nello stesso tempo inizia la sua formazione da autodidatta. Si circonda di libri di cucina e riviste di tutti i tipi, incluse quelle più tecniche; studia, osserva, assimila. Per 10 anni è la spalla del marito. Poi il salto. Il cuoco decide d’andarsene, ed è quindi urgente trovare una soluzione: Luisa prende possesso dei fornelli.
Come ha fatto a improvvisarsi cuoca?
Mi hanno aiutato una buona manualità e il senso artistico. Avendo parecchia memoria visiva, ho cominciato a replicare quanto avevo osservato. Non ho mai fatto stage o corsi, ma nei primi tempi siamo andati a mangiare da tanti ristoratori. Il mio obiettivo era riuscire a capire come si realizzavano le ricette. Ho lavorato bene. Nel 1996 abbiamo ottenuto 2 stelle Michelin e due anni dopo è arrivata la terza.
La tradizione italiana e la cultura culinaria piemontese sono i suoi punti di riferimento.
Faccio molta ricerca sugli ingredienti. I vegetali li prendo da un contadino che lavora per me. Io stessa coltivo un piccolo orto. I formaggi li compriamo in Valsesia o in Val Formazza, la carne da un macellaio che ha la vera Fassona, i salumi in Val Vigezzo.
Come sceglie i prodotti?
Seleziono quelli italiani, anche quando siamo in un periodo dell’anno in cui il territorio non produce molto. Mi reputo fortunata perché con contadini e allevatori si è creata una vera collaborazione.
Ho visto che per lei è importante il colore.
Sono partita dall’idea di creare un quadro, una bella rappresentazione nel piatto. Che doveva essere anche buona.
Lei ha conosciuto Gualtiero Marchesi?
Sì. Ha voluto sapere se ero io veramente che facevo o se avevo dietro qualcun altro.
La cucina le piace sempre?
Eccome! Quando ero all’inizio, ogni volta mi pareva di affrontare un esame: chissà se quello che ho fatto va bene. Controllavo i piatti che tornavano indietro vuoti e mi rinfrancavo. I clienti abituali diventavano cavie; se avevo in mente un nuovo accostamento, lo testavo con loro. La coscienza di essere sulla strada giusta, l’autostima, è arrivata grazie ai clienti.
Lei ha un piatto bandiera?
Ne ho diversi; 2 sono speciali. Il primo è un fungo porcino al forno, con il gambo farcito dalla sua dadolata trifolata, che io presento intero sul piatto, e lo servo con una coreografia che richiama il sottobosco: creo la terra con il pane scuro e inserisco piantine, erbe, petali di fiori. Gli ingredienti sono il fungo, l’olio, il prezzemolo e un pizzico di aglio. Non aggiungo nient’altro. Per il secondo piatto si parte dalla patata e si aggiungono uovo, Parmigiano e tartufo bianco. L’uovo è nascosto nella patata, coperta da una purea morbidissima gratinata e da fettine di tartufo. L’apri con la forchetta e scende il tuorlo. Penso di averne fatti a migliaia. Gli stranieri chiedono: c’è il fungo, c’è la patata? Per il primo si parte da maggio, per la seconda ci vuole il tartufo, da metà settembre a fine gennaio.
Ha dei collaboratori?
Pochi, perché voglio avere le mani in pasta… Al limite lascio le preparazioni secondarie. Mi fido poco, non voglio demandare completamente. Sono un po’ cattiva.
In questo periodo fa fatica a trovare i rincalzi?
Si, perché i ragazzi che escono dalla scuola alberghiera pensano di sapere già fare – io da più di 40 anni sono in cucina, e mi ritengo ancora una che ha tanto da imparare –, e sono spaventati dalla fatica: sabato e domenica si lavora, la giornata di riposo a volte salta se non si vuole perdere un cliente importante. Una delle prime prove a cui li sottopongo è lessare le patate. L’errore che fanno è metterle in una pentola piccola con poca acqua; così cuoce solo la metà inferiore. Oppure gli spinaci; tengono le foglie grosse e non la parte interna.
Quali sono le doti principali di chi vuol fare bene il cuoco?
La passione innanzitutto: il lavoro deve diventare il tuo hobby. E poi la costanza, la voglia d’imparare. Bisogna pensare a cosa farai domani. Noi a 16-17 anni avevamo già un’idea precisa. Penso che i social abbiano generato false aspettative.
Lei cosa consiglia come percorso d’apprendimento?
Sicuramente la scuola alberghiera ti dà una base; poi bisogna cercare d’entrare nelle cucine dei grandi ristoranti, cosa non facile. È importante l’umiltà. Magari, come prima cosa ti fanno pulire le piastrelle della cucina: accettalo, lo chef ti sta mettendo alla prova. Ma il nostro è uno dei lavori più belli: sei a contatto con la gente, partecipi a eventi, anche all’estero; in Brasile mi sono portata dietro i ragazzi. E poi visito, e valuto, i contadini, gli allevatori, i casari; vado negli alpeggi. Questo lavoro di ricerca potrebbe essere interessante per i giovani.
Paola Chessa Pietroboni
Patata, uovo, Parmigiano e tartufo bianco (per 10 persone)
- 12 patate di media grandezza
- 12 tuorli d’uovo
- 6 cucchiai di Parmigiano
- 1/2 litro di panna
- 1 tartufo bianco
Cuocere le patate con la buccia nell’acqua per circa mezzora. Pelarle, scavarne 10 in modo da ottenere un buco che contenga un bel rosso d’uovo. Lasciarle in caldo. Intanto, con le 2 intere e gli scarti delle 10 preparare una purea molto morbida scaldando la panna, 2 tuorli e un cucchiaio di Parmigiano. Inserire in ciascuna delle 10 patate scavate un tuorlo, salarlo, coprirlo con la purea e gratinare per circa 2 minuti. Finire con una bella grattata di tartufo bianco.