LE BUONE REGOLE DEGLI ANTICHI MONASTERI

Dai primi secoli del Cristianesimo a tutto il Medioevo, nella maggior parte degli ordini monastici (e non solo!), i divieti e le restrizioni alimentari derivavano non tanto da necessità pratiche o da precetti igienici, quanto dalla convinzione che solo sottoponendo il corpo a una severa disciplina ed esercitando l’abitudine alla moderazione si poteva aspirare alla perfezione spirituale.

 

 

L’Abbazia di Chiaravalle, alle porte di Milano.

 

 

Ogni ordine religioso rispondeva a una propria Regola, che organizzava nei minimi dettagli la vita quotidiana dei monaci, inclusa ovviamente la dieta e la preparazione del cibo. La Regola di San Benedetto da Norcia, per esempio, consigliava ai frati un’alimentazione frugale, riservando la carne solo agli ammalati. Prevedeva due pasti al giorno, ciascuno con due piatti caldi, 450 grammi di pane e un quarto di vino.

 

Santa Ildegarda da Bingen, anche lei religiosa benedettina e mistica, sosteneva che il benessere dell’uomo, che è sano per natura, va preservato con una dieta alimentare appropriata perché l’ingordigia e il consumo troppo abbondante di cibo provocano le malattie.

 

Nei monasteri dunque la cucina era sempre orientata alla continenza, pur nella varietà delle diverse abitudini alimentari. In genere i monaci si nutrivano di zuppe di cereali e di ortaggi, insaporiti dalle piante aromatiche, di formaggi, di miele e di tisane. Ma era previsto anche che osservassero periodicamente il digiuno.  Non così doveva essere per i viandanti e i pellegrini loro ospiti: esonerati dal sacrificio della rinuncia, per loro carne, formaggi e vino erano sempre disponibili.

Durante i pasti, che avevano orari differenti in funzione delle stagioni, era prescritta la lettura delle Sacre Scritture da parte di un monaco. Per l’abate era d’obbligo mangiare con gli eventuali ospiti.

 

 

Cibo curato, cibo per l’anima

 

Oggi definiremmo la cucina dei monasteri una “cucina del territorio”, che sfruttava al massimo le risorse disponibili nel rispetto della stagionalità. Campi coltivati a cereali, vigneti, uliveti, orti ricchi di erbe officinali erano le fonti di approvvigionamento sia per l’alimentazione, sia per la preparazione dei medicamenti. La conoscenza delle proprietà delle erbe veniva infatti trasferita nella quotidiana preparazione dei pasti che aveva così il compito di rafforzare, e insieme lenire e curare.

 

 

Ogni anno, nella suggestiva cornice dell’Abbazia cistercense di Chiaravalle ha luogo la Sagra del Pane dei Monaci.

 

Le vivande erano prevalentemente vegetariane, essenziali ma creative. I monaci istruiti  trascrivevano le ricette, comprese quelle eccezionalmente ricche dei giorni di festa. In occasione di visite importanti, la descrizione dei piatti più apprezzati passava da un monastero all’altro, così da mantenere vivo l’interscambio della cultura gastronomica.

 

Pur nel rispetto della regola della continenza, la cura per il cibo era molto alta, a cominciare dal reperimento delle materie prime, fino alla conservazione e alla trasformazione. Se rigore, preghiera, lavoro e silenzio erano per i monaci strumenti che avvicinavano al Signore, non si poteva ciò nondimeno dimenticare che il cibo era dono di Dio e dunque aveva un valore simbolico e una carica di sacralità.

 

Marina Villa

 

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