La posizione geografica, la fertilità del suolo, l’ingegno degli abitanti e la sapiente conservazione delle tradizioni hanno favorito la nascita di prodotti alimentari d’eccellenza. Alla fine del XX secolo si cominciava appena a parlare di turismo enogastronomico. Ma la provincia di Parma era già consapevole del fatto che la Food Valley costituiva un tesoro. E avviava due azioni importanti: creava, a Colorno, ALMA, scuola internazionale superiore di cucina italiana; e progettava un circuito di musei dedicati ai singoli straordinari prodotti del suo territorio.
Nel 2003 viene inaugurato il museo del Parmigiano Reggiano, nel 2004 il museo del prosciutto di Parma e quello del salame di Felino. Nel 2010 apre il museo del pomodoro e nel 2014 quello della pasta e quello del vino; nel 2018 il museo del culatello di Zibello. Nel 2021 si spera di poter inaugurare l’ultimo degli 8 musei, quello del fungo porcino di Borgotaro. L’appassionato coordinatore dei Musei del cibo è Giancarlo Gonizzi.
Ci racconta come è nato il progetto dei musei?
I musei raccontano in realtà un processo di trasformazione: come fa il latte a diventare formaggio, come fa un maiale a diventare prosciutto, come fa un chicco di grano a diventare uno spaghetto. Il circuito dedicato a prodotti specifici è unico in Europa. Parliamo di DOP, di IGP e, comunque, di prodotti di grande qualità.
Un’operazione di questo tipo promuove il territorio e, come ricaduta, i suoi prodotti, ma la scelta strategica è trasformare un’attività primaria in un’attrattività di tipo turistico, esperienziale. È importante ricordare che Parma produce prosciutti dall’epoca dell’antica Roma e sono 8 secoli che si fa il Parmigiano in queste terre.
La vocazione agroalimentare è radicata nei millenni e quindi ha lasciato sedimenti importanti nella cultura. Se noi entriamo nel Battistero di Parma del XIII secolo, troviamo, tra le sculture di Benedetto Antelami, un salame appeso ad asciugare, il grano, la raccolta dell’uva. Sulla facciata della Cattedrale c’è il norcino che sta ammazzando il maiale.
Come si spiega che esista una Food Valley, cioè un territorio così vocato?
Roma decide di conquistare la Gallia Cisalpina, cioè la Pianura Padana, per ragioni di approvvigionamento alimentare. Quando l’esercito di Roma arriva in questo territorio, traccia un percorso per connettere Parma al porto di Luni.
A Luni arrivano i prodotti che la grande pianura è in grado di produrre, e da lì via nave in una settimana, navigando sotto costa, si arriva a Roma. Gli abitanti, che fondamentalmente sono Galli, avevano cominciato da secoli ad allevare maiali e a macellarli per trasformarne le carni in salumi. La presenza a Salsomaggiore di sorgenti di acqua salata permetteva di estrarre il sale senza dover arrivare al mare.
Per fare salumi, il sale è indispensabile. La presenza del sale da una parte, l’esperienza territoriale dall’altra e la vicinanza con una infrastruttura di trasporto, il porto di Luni, fanno sì che quest’area si metta a produrre cibo in quantità superiore alle esigenze dell’autosostentamento. Se lo si fa da 2000 anni, lo si farà per sempre: si è imparato a produrre più di quanto serva. I prosciutti di Parma seguono l’esercito romano alla conquista del mondo, e questo dà l’occasione per produrre di più. Se il territorio, che ha in quel momento una densità abitativa molto bassa, riesce a produrre più di quanto serve alla sua popolazione, può destinare tutto il resto all’esportazione.
Dal punto di vista turistico, questa proposta di musei ha funzionato?
Sì. Dalla loro fondazione sono più di 250 mila le persone che sono entrate in uno dei musei… Ma, soprattutto, il circuito ha creato una sorta di sistema: andando sul sito dei musei del cibo, ci si accorge che noi raccontiamo l’intero territorio, castelli, pievi romaniche, parchi… siamo convinti che il territorio sia un paesaggio culturale.
Le proposte dei musei sono molto ampie
L’intento è far capire che in realtà il cibo coincide con l’identità… L’identità è fatta di tanti aspetti, e il cibo si lega a tutto, arte, letteratura… Qualunque sistema che ha a che fare con l’identità si lega al cibo. Se ci si pensa, non esiste un’arte in cui il cibo non abbia la sua presenza. Riportare tutto intorno alla tavola può essere un modo curioso di scoprire che in realtà il tema di fondo è quello della nostra identità, l’identità di un popolo e di un territorio. Qui si è creato un equilibrio che fa sì che ciò che è stato prodotto possa essere prodotto ancora senza depauperare il territorio e le nuove generazioni.
I sistemi di produzione sono rimasti quelli tradizionali?
Fondamentalmente sì. Ovviamente ci sono dei miglioramenti: se una volta portavo il prosciutto in spalla, adesso posso contare su una catena di trasporto. Ma lo strumento per fare i prosciutti è sempre il coltello. Quindi il prosciutto si fa come si faceva in passato, 2 mila anni fa. Certo oggi abbiamo le celle frigorifere; 2 mila anni fa si faceva solo d’inverno. Però le metodiche sono le stesse. È il segreto del successo.
Paola Chessa Pietroboni