I cibi che hanno eretto palazzi. Seconda puntata – dopo la prima riservata al grano – dedicata agli alimenti che hanno trasformato radicalmente noi e la nostra società.
Oryza sativa, la seconda cariosside della nostra avventura, meglio conosciuta come riso asiatico, viene domesticata per la prima volta tra i terreni acquosi che abbondano nel bacino del fiume Yangtze, il Fiume Azzurro, tra i 13.000 e gli 8.000 anni fa. Forse, in effetti, a questo punto dovremmo chiederci che cosa significhi “domesticare”. Sì, perché la maggior parte delle piante che oggi rientrano nella nostra categoria di cibo non è “natura”, ma “cultura”, risultato dell’intervento diretto degli esseri umani che, in un certo momento della storia, hanno iniziato a selezionare più o meno intenzionalmente i frutti più dolci, o saporiti o digeribili, le piante più vigorose e rigogliose, interrandone i semi a scapito delle loro sorelle non ritenute altrettanto appetibili. Lo stesso vale per specie e razze animali.
Oryza sativa è figlia, per così dire, di Oryza rufipogon, conosciuto anche come riso rosso o riso selvatico e… no, fermi! Non facciamo confusione: non è il rosso a cui state pensando; quello è il riso Ermes, una cultivar italiana ottenuta dall’incrocio del Venere con una varietà della nostra Oryza sativa (per la precisione, se proprio vogliamo essere pignoli, la variante indica). Non confondiamo dunque l’antenato con il pronipote solo perché hanno lo stesso colore di capelli! E se ora vi state chiedendo che cosa sia una cultivar, sappiate che è semplicemente un’ulteriore selezione operata per ottenere una pianta con determinate caratteristiche, che si tratti di cibo o di vegetali ornamentali.
Ma come avviene il processo di domesticazione? Beh, ci sono due possibilità, individuate già da Charles Darwin nel lontano ‘800: una consapevole, la riproduzione selettiva, in cui gli esseri umani selezionano specificamente piante e animali da far riprodurre sulla base di tratti desiderabili che intendono ottenere, conservare e incrementare nelle generazioni successive, e una inconsapevole, in cui l’emergere di determinati aspetti è un effetto quasi collaterale e non pianificato o addirittura frutto della selezione naturale. Il primo caso è semplice da comprendere: si opera in modo di far riprodurre specificamente l’animale o la pianta che esibisce i tratti desiderati; il secondo caso, proprio per via della sua non intenzionalità, è meno lineare: un esempio è il processo che portò dal lupo al cane (entrambi rappresentanti della specie Canis lupus), o dal cinghiale al maiale (entrambi Sus scrofa). Non c’era, tra i piani degli esseri umani, inconsapevoli coprotagonisti di tale svolgimento, l’intenzione di ottenere un cane dai lupi o un maiale dai cinghiali dei boschi limitrofi. Questi animali furono il risultato di un processo cumulativo di selezione che portò dapprima gli esemplari più docili e sensibili alla addomesticazione, permettendo, generazione dopo generazione, di far emergere certe caratteristiche e di fissarle nel loro codice genetico, in un caso in termini di animale da lavoro, nell’altro, come cibo. E, se proprio vogliamo dirla tutta, maiale, benché sia il termine più usato, non sarebbe proprio il più indicato: meglio suino o porco per indicare l’animale in generale, verro per il maschio e scrofa per la femmina. Il termine maiale deriverebbe, secondo il Dottore della Chiesa Isidoro di Siviglia (560 – 636 d.C.), dal latino majalis, nome con cui si indicava un porco castrato, vittima sacrificale in onore della dea romana Maia, madre del dio Mercurio.
Gli stessi processi, talvolta consci, talvolta inconsapevoli, hanno portato alla selezione di quasi tutte le piante e animali che troviamo sulle nostre tavole, tra cui l’Oryza sativa, di cui esistono oggi ben 40.000 cultivar diverse. Il riso, come il grano nella Mezzaluna fertile e nel Mediterraneo, conquista l’oriente e influenza, nel modo in cui abbiamo visto nello scorso articolo, il fiorire delle civiltà dell’estremo Est del mondo, al punto di fungere da moneta e di conquistarsi, anche qui, un posto tra le divinità. Nella terra del Sol Levante, il Giappone, dove prende forma la variante japonica di Oryza sativa, la divinità associata al riso è Inari Okami. Come per la romana Cerere, Inari, oltre che del riso, è nume della fertilità e dell’agricoltura e, per estensione, anche del sake (vino di riso), del tè e… delle volpi. Ma che centrano le volpi? A suggerire una risposta è il professor Hiroshi Moriyama, dell’Università di Tokyo: la volpe è un predatore naturale dei topi, che infestano le risaie con le loro tane – con il rischio di diffondere malattie come la leptospirosi – e che saccheggiano i granai (o dovremmo forse dire risai?) con l’inevitabile conseguenza di inimicarsi gli esseri umani. La volpe, quindi, della quale persino l’urina sembra funzionare come repellente per roditori, assume un ruolo di animale benefico, collegandosi così alla divinità del riso, di cui è considerata messaggera.
Riccardo Vedovato
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