Nel nostro paese vi è oggi un numero limitato di agricoltori tradizionali. Si tratta di contadini (presenti nelle aree di montagna, di collina, o nelle zone meno sviluppate dell’Italia) che lavorano superfici poco estese di terreno, manualmente o con l’aiuto di animali da traino, producendo generalmente beni sufficienti solo ad alimentare la propria famiglia e a ricavare un modesto guadagno dalla vendita dei prodotti rimanenti.
Fino a quando l’innovazione tecnologica non si è applicata alla lavorazione della terra e all’allevamento del bestiame, queste attività, storicamente a basso impatto ambientale, hanno permesso agli agrosistemi di mantenersi in equilibrio. La combinazione nell’azienda di produzione agricola (coltivazioni diverse e alternate) e di allevamento, ha rappresentato uno strumento elementare ma efficace di tutela della biodiversità. Una parte del terreno era tenuta a prato o a pascolo, il letame si utilizzava come concime, gli insetti degli alberi da frutto potevano completare in azienda il loro ciclo biologico e così via.
Poi l’agricoltura si è modernizzata grazie appunto all’innovazione tecnologica, abbinata a cospicui investimenti di capitali. Questo in genere ha comportato un aumento della produttività ma contestualmente un danno sul piano dell’impatto ambientale. Per rimediare si è cercato di abbinare all’obiettivo della redditività quello della tutela dell’ambiente e della salute dei consumatori e degli operatori. Si parla quindi oggi di due alternative possibili: una è l’agricoltura integrata (riduzione del ricorso ai mezzi tecnici e ai prodotti chimici), l’altra l’agricoltura biologica (rispetto dei cicli della natura e garanzia su controlli e certificazioni).