Se si chiedesse a qualche giovane cuoco “cosa ti dice la parola ‘Cantarelli’?”, è probabile sentirsi rispondere che si tratta di funghi oppure di dolci romagnoli, mentre io, in un ideale “amarcord”, desidero parlare della mitica coppia costituita da Peppino e Mirella Cantarelli di Samboseto, piccolo paese delle terre verdiane che, con la loro omonima trattoria, furono il primo punto di riferimento della grande cucina italiana degli anni 50/80.
Le illustrazioni sono di Libero Gozzini, che dal 2009 è tra i fondatori, nonché docente e consulente, del Mimaster di Milano.
Il loro percorso iniziò nel modo più semplice. Peppino, figlio di un importante commerciante internazionale di cavalli, scelse di dedicarsi al vino, importando dalla Francia le migliori etichette per venderle alle famiglie benestanti del milanese che diventarono clienti affezionati anche per altre categorie di prodotti.
Alla sua ricca e ricercata cantina si affiancarono infatti presto i diversi banchi per la vendita di prodotti eccellenti: i migliori prosciutti e i culatelli più pregiati, i formaggi nazionali e di importazione, tutto in una “drogheria-salumeria” d’altri tempi che vedeva accrescere, giorno dopo giorno, il numero di clienti, i quali, pur di assicurarsi le migliori parti di un cibo di altissima qualità, non esitavano ad affrontare centinaia di chilometri per giungere alla porta di Peppino.
A questo punto – eravamo nel 1953 – entrò in scena da protagonista Mirella, bravissima cuoca, la quale, dopo una lunga esperienza con la cucina di casa per gli “amici”, pensò con Peppino di aprire una vera trattoria, nel retro del negozio, proponendo piatti semplici ed elaborati, realizzati con grande cura e con prodotti di valore eccelso che solo qui sarebbe stato possibile reperire.
La fama della “Trattoria Cantarelli” si espanse a macchia d’olio e le code di clienti si infittirono, tanto che da quelle parti, celebri per Giuseppe Verdi, non si andava più solo per il “Cigno di Busseto” ma anche per mangiare “dal Peppino e la Mirella” e, quando non si trovava posto, ci si accontentava di portare a casa fette di culatello sopraffino o Parmigiano di lunga maturazione.
Anche la Guida Michelin si accorse del fenomeno enogastronomico della “Trattoria” che, in poco tempo, si vide assegnare una stella e, qualche tempo dopo, la seconda, fatto assai singolare per una trattoria.
Mirella e Peppino proponevano un repertorio non troppo vasto ma di effetto garantito. I piatti erano sempre frutto di discussioni anche vivaci fra loro: molte volte la contesa riguardava l’accostamento dei vini giusti per i singoli piatti. Peppino contestava alcuni ingredienti perché, a suo avviso, “facevano a pugni” con il gusto del vino che lui pensava di accostare. Di solito Mirella tentava di vincere il match con qualche ritocco di procedura e Giuseppe cedeva. Altre volte lui, se il vino era di grande importanza, si imponeva e lei eliminava qualche ingrediente ma, mediamente, trovavano sempre un accordo. Tuttavia, quando un piatto veniva servito per la prima volta, entrambi restavano immobili a osservare il commensale che lo degustava per vedere se il nuovo piatto aveva successo.
La Trattoria aveva costi abbordabili e ciò anche quando ottenne le due stelle Michelin che avevano esteso la fama dei Cantarelli in tutta Europa e accresciuto notevolmente il numero dei clienti internazionali.
C’erano alcuni piatti che si dovevano mantenere in “carta” in via permanente perché richiestissimi dalla clientela. Non potevano mancare il Savarin di Riso, il Soufflé di Lingua di vitello o lo Zabaione con gli Amaretti.
E che dire della cantina? Peppino viaggiava in Italia e all’estero alla ricerca delle novità ma, soprattutto, della qualità dei vini. Era curioso osservare che clienti francesi arrivassero dai Cantarelli e acquistassero vini francesi da portare in Francia.
Oltre all’esclusiva enoteca, Peppino possedeva una delle più fornite collezioni di distillati, dai Cognac agli Armagnac, per non parlare dei Whisky più pregiati.
La “Trattoria Cantarelli” durò trent’anni e chiuse nel 1983 con grande dolore per gli appassionati gourmet di tutto il mondo che l’avevano eletta a “elemento essenziale della grande realtà enogastronomica italiana”.
Un anno prima invitammo la celebre coppia a realizzare una serata ad Altopalato, allora nella fase iniziale del suo percorso “gastroculturale”. La performance ebbe grande successo, tanto da richiedere alcune repliche. A questo proposito ricordo che, durante la preparazione del menù di quelle serate, avevo chiesto a Mirella il motivo dei “23 tuorli per ogni chilogrammo di farina” e lei rispose: «Come vedi, non sono un tipo tranquillo e qualche volta Peppino, con le sue critiche, mi innervosisce; un giorno di molti anni fa stavo facendo la sfoglia e, dopo una discussione su un piatto, ero abbastanza irritata e, dividendo i tuorli dagli albumi, parlando nello stesso tempo, continuavo a rompere le uova mettendole al centro della “fontana” di farina e non mi ero accorta di aver messo 23 tuorli; che fare, buttare tutto? Nemmeno per sogno! E feci l’impasto; era buonissimo, giallo e le tagliatelle fantastiche. Da quel momento, la pasta all’uovo della mia cucina fu fatta da 23 tuorli per chilo di farina.»
di Toni Sàrcina