GIOIA GIBELLI

Secondo lei, architetto del paesaggio e presidente della Casa dell’Agricoltura, siamo abitanti un po’ impegnativi per questa nostra povera Terra. Ma potremmo migliorare.

 

 

Un architetto del paesaggio si occupa di progettazione di parchi, giardini, aree urbane degradate. Può lavorare alla scala spaziale della pianificazione, affiancando gli urbanisti, ma con una visione di sistema; oppure, sul piano delle valutazioni, può utilizzare il paesaggio come una cartina di tornasole che rivela quello che è stato fatto bene e quello che è stato fatto male. L’abbiamo intervistata.

 

Lei si è laureata nel ’78 con una tesi sulle cascine e i paesaggi rurali, in particolare nel sud-ovest milanese. Ma, in quel periodo, al Politecnico di Milano gli interessi erano altri. 

È stata effettivamente una tesi dirompente, ‘un uovo fuori dal cesto’. Ho affrontato questa materia perché un mio professore, Vittorio Ingegnoli, aveva introdotto in Italia l’ecologia del paesaggio. Si scopriva l’importanza delle architetture minori. E quindi è stato abbastanza semplice mettere insieme le cascine con il territorio che presidiavano da sempre. In Lombardia, se non ci fossero le cascine non ci sarebbe l’agricoltura.

 

Perché le interessava questo argomento?

Volevo capire. Ho imparato tante cose sull’organizzazione dei paesaggi rurali lombardi. Studiavo come si è strutturato l’assetto della città metropolitana, i suoi elementi portanti, che di fatto sono vivi ancora adesso e determinano le strutture paesaggistiche: parlo dei grandi fiumi, del reticolo idrografico. Ho compreso allora quanto era importante il tema delle acque.  Prima delle bonifiche, che sono state avviate in epoca medioevale da parte dei monaci, il nostro territorio era una grande palude. Adesso sembra una terra promessa perché è fertilissima. Questo ha condizionato fortemente anche l’evoluzione della città di Milano: le aree industriali si sono sviluppate a nord e l’agricoltura prevalentemente a sud perché ci sono i materiali fini – sabbia, limo e argilla – e un reticolo irriguo più fitto.

 

Cosa sono le risorgive e le marcite?

Le risorgive sono una delle caratteristiche fondamentali di questo territorio, e di poche altre zone nel mondo; sgorgano a una temperatura costante, intorno ai 12/13°C, durante tutto l’anno. Ciò significa che non gelano neanche quando gli inverni sono freddissimi, sottozero. Con quest’acqua si allagavano i prati, creando le marcite. Voleva dire avere il primo raccolto d’erba a febbraio; un vantaggio che ha reso Milano molto ricca, perché in tutto il periodo che va dal XIII secolo fino alla rivoluzione industriale l’erba era assimilabile al petrolio: costituiva il nutrimento di cavalli e buoi, quindi dei mezzi di trasporto e della forza lavoro.

 

La Fondazione Ca’ Granda Policlinico è proprietaria di 85 milioni di metri quadri di patrimonio rurale, con quasi 100 cascine.

E produzioni di eccezionale pregio, come quasi tutte quelle di quest’area, perché qui, grazie al rapporto importantissimo tra città e campagna, abbiamo sempre avuto un’agricoltura all’avanguardia. I grandi proprietari terrieri erano nobili prima e industriali poi, e hanno trasferito nelle coltivazioni abilità gestionale e capacità d’innovare. La campagna nutriva la città con i suoi prodotti, la città nutriva la campagna con i suoi saperi.

 

C’è accordo o conflitto tra popolazione urbana e popolazione rurale? 

Fino al 2012, quando si è cominciato a pensare all’Expo, il conflitto era fortissimo. Gli agricoltori chiedevano la certezza della terra, mentre, anno dopo anno, vedevano restringersi i confini attorno ai loro appezzamenti. Expo ha fatto capire ai milanesi che la Lombardia è, per metà, rurale; anche la città metropolitana di Milano è costruita solo al 50%.  Milano è il secondo comune agricolo d’Italia dopo Roma. E questo non si sapeva. Ma Expo ha insegnato inoltre quanto sia importante la qualità dei prodotti per la vita delle persone. Quindi, c’è stato proprio un salto culturale sia nei cittadini sia nell’amministrazione pubblica.

 

Mi pare di capire che però c’è ancora tanto da migliorare.

Anche per questo è stata pensata la Casa dell’Agricoltura, un’associazione che potesse dare un seguito all’eredità di Expo 2015. Ma se in pianura c’è un’agricoltura forte, la collina e la montagna stanno soffrendo. Molte aree sono abbandonate.

 

Cosa si potrebbe fare?

Tante cose. L’agricoltura di montagna ha un’importanza decisiva nei confronti del dissesto idrogeologico. Gli agricoltori potrebbero essere economicamente sostenuti per tenere in sicurezza il territorio. Sistemare a posteriori è molto costoso.

 

Mi parli della Casa dell’Agricoltura.

Stiamo cercando di essere di stimolo alle amministrazioni pubbliche. Abbiamo lavorato anche al tavolo del MIPAAF per scrivere le misure delle politiche agricole comunitarie italiane. In questo momento, è attivo un importante corso sui tecnici agrari che ha due finalità importanti: quella di formare e quella di amplificare le opportunità di lavoro per i giovani, dando loro delle competenze specifiche che sono richieste ma che, in questo momento, non hanno delle figure professionali di riferimento. Potranno essere i consulenti delle nuove aziende del terzo millennio.

Paola Chessa Pietroboni

direzione@cibiexpo.it

 

 

 

 

 

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