GIANCARLO PERBELLINI

Non ha aperto i suoi ristoranti puntando alle Stelle Michelin o ai Cappelli de L’Espresso, di cui ha comunque un’apprezzabile collezione, ma per genuina passione.

Fin da bambino, seguendo il nonno, ha respirato il profumo della pasticceria. A 14 anni s’iscrive alla scuola alberghiera di Recoaro e muove i primi passi in alcuni buoni ristoranti italiani. Un percorso lineare e, nello stesso tempo, speciale.

 

 

Non è da tutti passare dalla scuola ai grandi ristoranti.

Le scuole mandavano i ragazzi a “fare le stagioni” nei luoghi di vacanza. Mio papà ha scelto una via diversa, un ristorante di qualità a Verona: per 3 anni il Marconi, che allora aveva 1 stella. Finito di studiare, sono stato prima al Desco, appena aperto, e poi al 12 Apostoli, 2 stelle (uno dei 6 o 7 in Italia). Ma non c’era l’enfasi attuale, erano dei buonissimi ristoranti, punto.

Al San Domenico di Imola ho sperimentato il salto di qualità: una grande brigata di cucina, le partite divise come una volta negli alberghi, l’entremetier (specializzato nei primi piatti, verdure, uova), il saucier (per la preparazione dei fondi e delle salse calde)… si faceva il pane 2 volte al giorno, 5 tipi diversi. Lì ho conosciuto un pasticciere italo-francese e con lui sono andato in Francia.

 

Un’esperienza utile?

Fondamentale per avere un metodo. La perfezione della cucina francese devi impararla da giovane e ti rimane nel DNA: l’impeccabilità dei tagli, il rigore nelle cotture…

 

Si cita la sua cifra stilistica. Mi spiega in che cosa consiste?

Mah, non so. Posso dire che sono legato alla stagionalità, che  ogni anno interpreto in modo diverso. Le nostre carte sono sempre molto legate al prodotto. Per cui, non ripetiamo i piatti dell’anno prima ma li ripensiamo, e il pensare ci tiene vivi. Cambiamo 5 carte l’anno e a ogni cambio modifichiamo quasi tutto.

 

Arriviamo a Casa Perbellini. Lei è un fenomeno d’attivismo: nuove aperture, premi, libri… Ha tempo per riposare?

Ultimamente poco.

 

Mi racconti di quando ha deciso di aprire Casa Perbellini.

Quella vecchia o quella in arrivo?

 

Tutt’e due.

Dopo 24 anni al ristorante Perbellini a Isola Rizza, ho deciso d’intraprendere una strada totalmente mia. C’è una specie di timore reverenziale, da parte di una fascia di pubblico, per il grande ristorante. Io volevo fare qualche cosa che non creasse tensione e trasmettesse quello che realizziamo. In 110 mq si mangia in cucina, e un cliente, dal momento in cui entra, si sente a proprio agio e può seguire tutto quello che accade. Volevamo si capisse che dietro a un piatto delle volte lavorano 8 mani, 4 teste, e per più giorni, con una serie di lavorazioni.

 

E la nuova Casa Perbellini?

Da agosto si trasferisce in un posto molto amato dalla città: il 12 Apostoli. Era il sogno della mia vita. Sarà Casa Perbellini-12 Apostoli. Si continuerà a mangiare all’interno della cucina, 12 posti, e poi ci sono le sale storiche.

 

Adesso è a Milano a Palazzo Trussardi. Come vi trovate?

Avevamo già conosciuto la città con la Locanda Perbellini Bistrot. Ma quello di oggi è un locale complicato, su 2 piani, con 39 dipendenti… La parte gourmet, cioè il ristorante, è al primo piano, mentre al piano terra c’è Dolce Locanda, la nostra pasticceria. E abbiamo riproposto un format che a Verona funziona molto bene, il Tapasotto – piccoli piatti, sullo stile del cicchetto veneziano o della tapas spagnola – non pretenzioso, alla portata di tutti. Siamo partiti con una cucina semplice, lineare. Adesso abbiamo iniziato ad aggiungere qualcosina. Nella parte gourmet: massimo 3 cose nel piatto e una carta di 16 proposte. Perfetto per il pranzo. La sera, il menù degustazione, non più di 5 portate.

 

Mi parli del suo impegno per l’educazione alimentare.

Vado nelle scuole e racconto sempre questa cosa: delle volte apri uno sportello e prendi un barattolo di crema spalmabile, ma, con 5 minuti in più e con 3 ingredienti, te la fai da solo, controllando i grassi e gli zuccheri. Altro tema: l’abitudine al recupero. I nonni l’hanno sempre praticato, l’abbiamo perso ma ce lo avevamo.

 

Il covid è stato pesante?

Noi ci siamo salvati. È peggio adesso perché ha cambiato le abitudini. La mancanza di personale dipende anche da quello che è successo. Siamo in grandissima difficoltà: nei nostri ristoranti siamo sotto di 6/7 persone. Quello che non riusciamo a capire è dove è finita la gente. Bisogna ripartire dalle scuole. Poco tempo fa, con Carlo Cracco, Corrado Fasolato e Lorenzo Cogo, tutti ex allievi a Recoaro, siamo andati a un pranzo per sensibilizzare la gente a iscrivere i figli. 4 anni fa gli studenti erano 1.280, adesso 690 e sono ancora in calo.

 

Pensa che i ragazzi siano spaventati dalla fatica di un lavoro impegnativo anche come orari?

Un cuoco lavora fino alle 11 di sera, un cameriere fino a mezzanotte, e un ragazzo di 16 anni alle 9 e 30 di sera devi farlo andare a casa. La carriera avrà degli orari diversi e devono capirlo. Oggi poi il costo della manodopera è diventato insostenibile. Quando ho cominciato, la prima voce di spesa di un ristorante era il food, adesso è la metà o il terzo rispetto a quella per il personale.

 

Potremmo rimediare con i robot?

Spero proprio di no.

Paola Chessa Pietroboni

direzione@cibiexpo.it

 

 

 

 

 

 

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