CICUTA

Se ti chiedessi di intuire il significato della parola phàrmakon, in greco antico, probabilmente risponderesti “farmaco” e avresti ragione! Beh, in parte, almeno. Perché phàrmakon ha due significati che chiunque definirebbe opposti: sia “veleno” che “medicina”. Suona un po’ strana la faccenda.

 

 

 

Eppure, se facciamo un po’ quello che fanno gli antropologi, e cioè scavare nelle categorie, nei modi di pensare dei nativi, in questo caso i greci, scopriamo qualcosa di interessante: è la dose a fare il veleno. Questo è vero sia per molti rimedi antichi a base di piante ed erbe selvatiche sia per molte medicine moderne.

Dal veleno di una vipera (Tropidolaemus wagleri) del Sudest asiatico si ricava un farmaco che impedisce la formazione di coaguli nel sangue, aiutando a prevenire infarti, ictus e altre malattie dell’apparato cardio-vascolare. Il rospo delle canne (Rhinella marina), originario del Centro America, quando minacciato, secerne una sostanza lattiginosa da alcune ghiandole poste dietro agli occhi e sulla schiena in grado di uccidere molti animali tra cui, ad alte concentrazioni, anche l’uomo, mentre a basse concentrazioni produce i sintomi di un lieve avvelenamento accompagnato a effetti allucinogeni.

La stessa sostanza, però, permette di ricavare un farmaco antitumorale che attacca le cellule malate senza intaccare quelle sane, rallentando la crescita dei tumori. Il Clostridium botulinum è un batterio che vive nel terriccio, e produce una neurotossina potenzialmente letale, dalla quale però si possono anche ricavare farmaci per il trattamento di disturbi muscolari e per la medicina estetica (il famoso botox iniettato per ridurre le rughe). Il come e il quanto segnano il confine tra medicina e veleno, rendendo il phàrmakon greco l’una o l’altra cosa.

Ed è proprio in Grecia che inizia il nostro viaggio tra i veleni, terra in cui una pianta in particolare fu spesso usata per infliggere la pena capitale: la cicuta.

Conium maculatum, per gli amici “cicuta maggiore”, è un’erbacea dai fiori bianchi raccolti in infiorescenza a ombrella, che può essere alta fino a 1-2 m e, oltre ad avere il fusto chiazzato di macchie rossastre, è piuttosto diffusa nelle campagne italiane. Emana un terribile odore, soprattutto se la pianta viene spezzata, simile all’urina di topo o di gatto, e ogni sua parte, i frutti soprattutto, anche se a livelli diversi, è tossica per l’uomo. Insomma, una pianta che cerca di dirci in tutti i modi che devi lasciarla stare e girare al largo. Quindi, gli esseri umani si sono messi ad usarla per farne veleni e decotti. Secondo lo storico francese Jules Isaac, l’uso della cicuta sarebbe stato introdotto dal capo della polizia ateniese, tale Satyros, durante la dittatura dei Trenta tiranni, la forma di governo che sostituì la democrazia ateniese dopo che la città perse la lunga guerra del Peloponneso contro la rivale Sparta.

L’uso forse più famoso della cicuta è però raccontato nel Fedone del filosofo ateniese Aristocle, detto Platone, “spalle larghe” per via del fisico massiccio dovuto probabilmente alla lunga esperienza da lottatore.  Comunque, in questo dialogo (le opere di Platone sono praticamente tutte scritte in forma di dialogo) la nostra protagonista pare comparire come parte di un phàrmakon usato per eseguire la condanna a morte del suo maestro: Socrate.

Platone racconta gli effetti dell’avvelenamento da Conium maculatum: “egli passeggiò per la stanza e dopo aver detto che le gambe gli si facevano pesanti si mise sdraiato supino, come aveva raccomandato l’uomo che portava il veleno. Dopo un po’ di tempo gli esaminò piedi e gambe e premendogli forte un piede gli chiese se sentisse qualcosa, ma Socrate disse di no. Dopo un po’ gli tastò le gambe che andavano irrigidendosi e raffreddandosi. Ci disse che quando il freddo avesse raggiunto il cuore, sarebbe morto.” Anestesia, proprio dal greco “privazione di percezione-sensazione”, e la successiva paralisi uccidono lentamente il sereno Socrate che accoglie la morte con un sussulto.

Ora questo finale è interessante e ha fatto molto discutere, perché Asclepio è il figlio di Apollo, nonché dio dei medici, al quale si fanno offerte e sacrifici per chiedere guarigione o come ringraziamento dopo aver superato una malattia. Il nostro phàrmakon qui però non è una medicina, ma un veleno il cui scopo è eseguire una pena capitale. Perché ringraziare Asclepio? Il filologo e linguista Georg Dumézil suggerisce che Socrate voglia ringraziare della “guarigione”, o del ravvedimento, dei suoi amici, che dopo il lungo dialogo accettano la sua volontà di scontare la condanna, rispettando la legge, anche se ingiusta, invece di continuare ad insistere affinché scappasse insieme a loro. Se ci pensiamo, però, phàrmakon in questo contesto può significare entrambe le cose allo stesso tempo: un veleno uccide l’uomo, una medicina “uccide” la malattia per guarirlo, ma in un contesto che accetta come giusta la discutibile idea di condannare a morte per avvelenamento un criminale, è un po’ come se rendessimo tale phàrmakon una medicina che uccide l’uomo per guarire la società.

Riccardo Vedovato

riccardo.vedovato1994@gmal.com

 

 

 

 

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